“Gli artefici dello sviluppo del timbro orchestrale moderno: H. Berlioz e R. Wagner”
Ci sono artisti ingenui, i quali riempiono completamente la “battuta” dei loro propositi nelle realizzazioni artistiche, altri artisti invece, presso i quali le facoltà intellettuali prevalgono sulle doti schiettamente musicali, lasciano sempre una larga differenza tra le loro intenzioni e le loro attuazioni artistiche. Tipico di questa seconda caratteristica fa parte il musicista Hector Berlioz (1803-69), il quale a parole, fu il più scalmanato romantico, smanioso di libertà in ogni campo, sovvertitore di regole e tradizioni; in realtà, se romantico fu il suo modo di trasferire direttamente la vita nell’arte ed entrambe mescolate, tessendo la tela dei suoi poemi sinfonici sopra un sostegno letterario, narrativo e psicologico, la sfrenata libertà della sua fantasia egli la impiegò poi veramente in un campo solo, nell’orchestra, di cui fu proprio il signore e il mago, non solo per la stranezza o la potenza di effetti eccezionali che seppe trarre ingrandendo smisuratamente le compagini strumentali o manipolandone i singoli timbri con straordinaria intuizione dei loro valori espressivi e dei reciproci rapporti di volume sonoro, ma anche per l’impiego normale, continuo, che rivela sempre in lui un’abilità senza pari, una perfezione di scrittura e una novità di modi assolutamente moderne. Naturalmente la novità della scrittura orchestrale non è qualcosa di completamente esteriore che possa applicarsi ad ogni musica senza produrvi reazioni interne. Infatti, due elementi distinguono lo stile di Berlioz, oltre alla sua meravigliosa comprensione dei timbri. Non soltanto scrive con un grande numero i parti reali, ma queste parti si incrociano in un continuo andirivieni, in un modo abbastanza curioso con ritmi che si urtano l’un l’altro. Talvolta, capita che nello stesso gruppo strumentale, come i violini per esempio, ritmi diversi si presentino affiancati. La divisione dell’armonia e del ritmo doveva necessariamente avere come risultato la suddivisione di ciascun gruppo strumentale, quindi gli strumenti venivano divisi in piccoli gruppi, trattati spesso a quattro parti i quali formavano tante piccole orchestre.
L’armonia di Berlioz è “povera” e spesso banale, nonostante i suoi fieri propositi di sovvertire le leggi musicali, la melodia non è particolarmente incisiva e il rifiuto della forma classica è più apparente che reale. Del resto, la fondamentale moderazione del suo gusto la confessò egli stesso in alcuni dei suoi eleganti scritti di critica musicale, come in quello su Wagner, intitolato “MUSICA DELL’AVVENIRE”, in cui egli si preoccupa di separare nettamente le proprie responsabilità da quelle del grande compositore tedesco, dettando una professione di fede ispirata a criteri di modernità e libertà ben chiare. Le stesse analisi armoniche delle opere di Beethoven, che fu il suo idolo e perenne modello ideale, sono condotte con una buona dose di pignoleria, e non nascondono frequenti perplessità scolastiche di fronte agli incredibili ardimenti di quel genio. La musica da camera fu completamente estranea agli interessi di Berlioz, che non fu buon esecutore di nessuno strumento, tranne che di chitarra. Il teatro invece fu la passione di tutta la sua vita, ma lo respinse con costanti insuccessi, indeciso come era tra l’imperativo romantico dell’originalità assoluta, e la tentazione di aderire alle disprezzate formule operistiche francesi convenzionali del “grand-opéra” e dell’”opéra-comique”. Nella musica sinfonica, la tendenza all’uso di un programma, ovvero una trama psicologico-descrittiva, lo portò ben presto alla forma dell’ouverture drammatica, alla libertà narrativa della “Sinfonia fantastica”, i cui cinque movimenti egli li concepì come castigo a una bella attrice inglese colpevole di non essersi subito arresa alle fiamme della passione, e con cui egli vinse il concorso del “Prix de Rome”.
Altra libera sinfonia, ispirata alle scene di un poema di Byron, altro prototipo berlioziano, è “Aroldo in Italia”, la quale fu inizialmente concepita come un concerto di viola da dedicare al grande virtuoso di violino italiano, Paganini, ma successivamente divenne un poema sinfonico in cui una patetica viola solista incarna le meditazioni e le fantasticherie del protagonista nella solitudine della montagna e poi di fronte a scene di colore paesane.
Una delle più singolari prove di Berlioz fu l’oratorio “L’infanzia di Cristo” (1854) nel quale egli amò deporre temporaneamente tutta la possanza dei suoi spiegamenti orchestrali e farsi arcaicamente semplice, umile e dimesso. Negli ultimi anni della sua vita, amareggiato, scontento, osteggiato durante tutta la sua carriera per l’eccessiva modernità dei suoi ardimenti, ed ora superato su questo stesso terreno da un gigantesco rivoluzionario come Richard Wagner, si rifugiò nel teatro, dove colse finalmente il primo successo con l’opera comica “Beatrice e Benedetto” (1862), tratto dal suo amato Shakespeare. L’ultima sua fatica non poté nemmeno vederla interamente rappresentata, quel ciclo drammatico dei “Troiani”, al quale non fu estranea l’ambizione di ergere un contro altare alla nordica “Tetralogia” wagneriana, e che rifacendosi inaspettatamente a Virgilio sembra rivelare alla fine la vena di classicismo latente in questo perenne ribelle.
Tutti i motivi del romanticismo musicale confluiscono nell’opera di Richard Wagner (Lipsia 1813-Venezia 1883) e vi trovano la più compiuta realizzazione senza elementi classici. L’ideale della fusione delle arti in una realtà superiore viene consapevolmente perseguito nella forma del “Wort-Ton-Drama” (ovvero parola-suono-danza), dove parola e suono nascono nell’animo di un solo creatore, e la danza, intesa come parte visiva dell’azione scenica, viene curata a costo di gravi sacrifici e di imponenti ostacoli da superare. Il compositore Tedesco, quindi, allontanandosi sempre più dal genere tradizionale dell’opera storica classica, va a cercare i propri soggetti nel mito. Già da Weber era stato avvertito il bisogno di un’espressione vocale che, libera da vincoli di forme chiuse, potesse seguire ininterrottamente il dispiegarsi del dramma in tutta la sua continuità. In Wagner la soddisfazione di tale bisogno viene cercata con accanimento nelle sue prime opere e diventa un fatto compiuto in quelle della maturità, dalla “Tetralogia” in poi, grazie all’uso della così detta “Melodia infinita”. Questa, come si può dedurre dal termine, è un ininterrotto tessuto musicale, ove non si avvertono giunture, tagli o riprese, ma solo si distinguono nella loro funzione di evocazione drammatica i ritorni dei motivi conduttori (o Leitmotiv). Però tale applicazione della melodia infinita richiedeva una nuova concezione armonica del discorso musicale, in cui i gradi fondamentali della tonalità (1° grado, 4° grado e 5° grado, ovvero tonica, sottodominante e dominante) non avevano più quello spicco che avevano prima nell’architettura formale del discorso musicale, inoltre Wagner, moltiplicando le dissonanze, sempre meno preparate e risolte e instillando un cromatismo vertiginoso che costituisce il più opportuno linguaggio musicale per rendere il fondamentale stato d’animo romantico dell’anelito a qualcosa d’irraggiungibile, fuori dalla realtà del presente. Wagner non solo disossa l’armonia e l’architettura del discorso musicale, facendola capace delle più impalpabili penetrazioni, ma attribuisce alla compagine orchestrale molte possibilità di colorito timbrico, in quanto non c’è mai un suono puro, ma tutto è amalgamato come macchie dense e compatte di colore.
Le opere che preparano, in un certo senso, l’ideale della fusione delle arti spiegato precedentemente sono:
· “Il Vascello Fantasma”(1843) - seconda opera in cui già si nota l’abbandono del dramma storico affrontato nella prima opera “Rienzi”(1842), a favore di questo dramma, in cui sviluppa il concetto di “redenzione” finale dell’anima errante, ossia la liberazione da qualche peso o impedimento spirituale, e in cui l’azione è trasportata dalla storia alla leggenda. L’opera vive di un suo fresco motivo di poesia: è la poesia del mare, che ritornerà nel primo e nell’ultimo atto del “Tristano”, ma che qui è sentito nella terribilità della sua violenza tempestosa;
· “Tannhauser”(1845) – opera di straordinaria vigoria e ricchezza musicale, dove il contrasto di misticismo e sensualità è vinto, esteticamente, dalla irresistibile schiettezza, dall’impenitente energia di quest’ultima;
· “Lohengrin”(1847) – In essa si compie un ulteriore progresso verso l’attuazione del dramma musicale supremo, in cui alla spiegata vocalità di certe espansioni melodiche, si uniscono alcuni saggi di declamato drammatico, ormai definitivo. Il misticismo wagneriano si manifesta poi con tipici mezzi musicali, soprattutto con il colorito diafano e luminoso degli archi.
L’immane progetto dell’”Anello del Nibelungo” gli balenò in mente già verso il 1846 e fu alimentato dall’acceso clima politico degli anni intorno al 1848. In origine la trama, che unisce motivi della leggenda germanica dei Nibelunghi con altri dedotti dalla saga nordica di Wotan, era pervasa da uno spirito rivoluzionario tipico di quegli anni. Il personaggio Sigfrido , che restituisce alle figlie del Reno l’oro, fonte dei mali umani, era considerato il sovvertitore dell’ordine capitalistico , il restitutore della libertà primigenia dell’uomo. Quindi Sigfrido resta essenzialmente un simbolo di vita e di vittoria.
Le prime due opere della Tetralogia furono terminate rispettivamente nel 1854 “L’oro del Reno” e nel 1856 “La Walkiria”; “Sigfrido” fu interrotto a metà del 1857, per dare spazio alla entusiastica composizione dell’opera “Tristano e Isotta” (1857-59), Il poema della passione amorosa e della notte, considerata senza dubbio come l’opera più perfetta di Wagner, sorretta da una continuità nell’ispirazione unica forse nella storia del teatro musicale. Il “Sigfrido” fu ripreso e terminato nel 1871, dopo quattordici lunghi anni dalla sua interruzione, a cui segui, nel 1872 la conclusione dell’opera “Il Crepuscolo degli Dei”, che terminava l’intera Tetralogia delle quattro giornate.
La prima rappresentazione integrale delle quattro giornate ebbe luogo dal 13 al 17 agosto del 1876 nell’apposito teatro di Bayreuth, ideato dallo stesso autore, in cui la tenacia di Wagner era riuscita finalmente a realizzare tutti i suoi piani, tutti i suoi desideri, tutte le sue aspirazioni di riforma drammatica. Infine, l’ ultima opera, “Parsifal”(1882), riassume i motivi del misticismo sessuale wagneriano; i conflitti delle passioni, pacificati nella catarsi d’un illuminazione interiore, non lasciano altra traccia che quella di una morbida e dissimulata sensualità, ammantata nelle pieghe d’un orchestra più che mai agglutinata e compatta nella sua densità.